Vedere riuniti, seppur virtualmente, i grandi (rivali) della terra assieme ai piu’ ambiziosi (sul clima) leader europei e al negazionista Bolsonaro fa un certo effetto. Una lunga marcia finalmente avviata, finalmente uscita dal solo mondo degli attivisti e approdata anche a quello dei potenti?
26 Aprile, 2021
La Redazione, in collaborazione con ISPI
Chiusa la parentesi ‘negazionista’ di Donald Trump, gli Stati Uniti tornano a guidare la lotta ai cambiamenti climatici. E il vertice sul clima, convocato nei giorni passati dagli Stati Uniti in occasione della Giornata mondiale della Terra, era un palcoscenico perfetto per sancire il rilancio della leadership Usa: 40 leader internazionali virtualmente riuniti per fare il punto sulla sfida più impegnativa del secolo, quella per la protezione dell’ambiente. “Dobbiamo agire adesso. È un imperativo morale ed economico” ha sottolineato il presidente Joe Biden evidenziando anche le “straordinarie opportunità economiche” della transizione ecologica. “Gli Stati Uniti – ha annunciato il presidente – si impegnano a dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2030”, aggiungendo che “questi passi porteranno l’economia americana a emissioni nette zero non oltre il 2050”. Promesse e impegni che, con scadenze e formule diverse, sono state formulate via via da tutti i ‘grandi’ del mondo: Ursula von der Leyen in primis ma anche Xi Jinping e Vladimir Putin, la cui presenza, seppur virtuale, non era assolutamente scontata in un momento di crescenti tensioni internazionali. Grande successo dunque? Non proprio: mentre alcuni grandi ‘inquinatori’, come India, Australia e il Brasile, si sono ben guardati dal prendere impegni, anche la Cina ha subordinato al taglio delle emissioni le sue esigenze di crescita economica.
Usa: dare il buon esempio?
L’annuncio di Biden, che ha promesso un taglio alle emissioni del 52% entro il 2030, risponde alle esigenze ambientali ma non solo. Il presidente Usa ha praticamente raddoppiato l’impegno di Barack Obama che prevedeva una riduzione del 25-28% entro il 2025. Oggi il paese, complice la politica di Donald Trump, non ha raggiunto nemmeno la metà dell’obiettivo. Eppure, come ha detto Biden, “la posta in gioco è enorme”. Se le nazioni non riusciranno ad impedire l’aumento delle temperature di oltre 1,5 gradi celsius sui livelli preindustriali, l’economia mondiale subirà 23 trilioni di dollari di perdite entro la metà del secolo. A causarli – secondo un rapporto di Swiss Re citato dal NewYork Times – saranno disastri naturali come alluvioni e smottamenti, diffusione di malattie e nuove epidemie. Secondo la società che opera nel campo assicurativo i cambiamenti climatici sono di gran lunga la peggior minaccia all’economia mondiale dei prossimi anni. Ben vengano dunque obiettivi ambiziosi come quelli posti dal presidente Usa che però, a ben guardare, al momento sono solo promesse e non sono vincolate, come intende fare l’Unione Europea con il Green Deal, a obblighi di legge. Il grande ostacolo che la Casa Bianca si trova ad affrontare – osserva ancora CNN – è un Congresso diviso in cui i Repubblicani hanno già definito ‘irrealistica e controproducente’ una strategia che penalizza il settore petrolifero americano e limita le emissioni mentre la Cina continuerà, almeno per un decennio, a inquinare (e a crescere) senza freni. E se il presidente non riuscirà a ricomporre la frattura tra gli schieramenti al Congresso dovrà ricorrere agli ordini esecutivi per trasformare le promesse in legge. E allora, come ha dimostrato Donald Trump, basterà un cambio di orientamento politico alla Casa Bianca per disfare tutto.
Cina: il clima può aspettare?
Almeno sul clima, Pechino e Washington provano a cooperare. E questa è una buona notizia, ma chi cerca impegni e strategie dettagliate sulla riduzione di emissioni inquinanti da parte di Pechino resterà deluso. La partecipazione di Xi Jinping al vertice è servita a ribadire una posizione cinese ormai nota: Pechino raggiungerà il picco delle emissioni per il 2030 e poi, progressivamente, azzererà le emissioni entro il 2060. La questione evidenzia ancora una volta l’inconciliabilità tra la necessità della Cina di raggiungere i suoi obiettivi di modernizzazione e industrializzazione, e la corsa globale per ridurre le emissioni di CO2, di cui la potenza asiatica detiene ormai da tempo il primato globale. Ancora oggi, oltre il 50% dell’energia necessaria per il fabbisogno del paese proviene dal carbone di cui è produttore e da cui è fortemente dipendente. Pechino, che comunque conta di raggiungere il 20% di energia rinnovabile per il 2025, sta investendo moltissimo nel cosiddetto ‘carbone pulito’, filtrato e meno inquinante del carbone normale, ma pur sempre inquinante. Quello dell’ambiente, insomma, è un terreno su cui la Cina “vuole collaborare con gli Usa”, ma non intende farsi dettare tempi e modi da nessuno. Se da un lato il dialogo tra la prima potenza più inquinante al mondo e il resto della comunità internazionale è essenziale per ridurre le emissioni, dall’altra il modello di sviluppo cinese appare ancora drammaticamente insostenibile.
Europa – cambio di passo?
“La lotta contro il cambiamento climatico sarà il motore della ripresa economica”. A dichiararlo ai leader del mondo riuniti in videoconferenza è la presidente della Commissione Europea. Ursula von der Leyen è intervenuta al vertice poche ore dopo l’approvazione della Legge europea sul clima, che mette nero su bianco l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050 e del taglio del 55% delle emissioni inquinanti entro il 2030. Arrivata dopo 14 ore di braccio di ferro tra Commissione e Consiglio, tuttavia, la legge prevede obiettivi a livello di Unione, non per i singoli stati membri e aggira la questione dei sussidi ai combustibili fossili, riportando l’intenzione della Commissione di tornare sulla questione in un secondo momento. Obiettivi modesti, secondo gli ambientalisti, che lamentano “la mancanza di un calendario stringente e dettagliato per il decennio in corso, che secondo gli scienziati sarà quello in cui sarà vinta o persa la lotta contro la disgregazione climatica estrema”.
Eppure le premesse ci sarebbero: i costi delle tecnologie pulite sono progressivamente diventati più competitivi e la transizione ecologica promette numerosi posti di lavoro. Anche dal punto di vista culturale, qualcosa sta cambiando. In diversi paesi europei i partiti verdi stanno crescendo nei sondaggi e in Germania gli ecologisti che tallonano la CDU puntano alle elezioni di settembre per esprimere il nuovo cancelliere. I tempi sembrano essere maturi per un cambio di passo reso ormai improrogabile dall’allarme degli scienziati. Per farlo davvero, in vista del prossimo vertice Onu di novembre, potrebbero prendere appunti dal discorso del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, il quale – sottolineando “siamo sull’orlo dell’abisso” – ha ribadito che è giunto il momento di “mettere fine alla guerra contro la natura”.
Mentre i leader del mondo erano riuniti in videoconferenza, Greta Thunberg bacchettava così i rappresentanti al Congresso americano: “La nostra generazione non si arrenderà come avete già fatto voi. È il nostro futuro, ce lo riprenderemo”. E di veramente ambizioso, alla fine della giornata, restano solo le sue parole.