
Marco Lazzaroni CEO UFI Hydrogen
Di Marco Lazzaroni (UFI Hydrogen) – Produrre idrogeno tramite elettrolisi significa scomporre l’acqua in idrogeno e ossigeno utilizzando elettricità. A cambiare, nelle due principali tecnologie oggi disponibili – quella alcalina e quella a membrana a scambio protonico (PEM) – è il cuore stesso del processo: il tipo di elettrolita e l’architettura della cella.
L’elettrolisi alcalina utilizza una soluzione liquida, solitamente idrossido di potassio, e impiega due elettrodi separati da un diaframma poroso. È una tecnologia consolidata, semplice, ma meno reattiva.
L’elettrolisi PEM, invece, impiega una membrana solida come elettrolita e lavora con acqua deionizzata, senza liquidi corrosivi. La sua struttura compatta consente un funzionamento più dinamico, opera a densità di corrente più elevate, consente quindi una maggiore produzione di idrogeno per unità di superficie e ha una risposta istantanea alle variazioni di energia in ingresso.
In altre parole, le due tecnologie non si differenziano solo per i materiali, ma per la loro attitudine a integrarsi con modelli energetici diversi: stabili e costanti nel primo caso, intermittenti e flessibili nel secondo come le fonti di energia rinnovabili, solare, eolico e idroelettrico.
Leggi anche: UFI Hydrogen avvia la produzione delle membrane catalizzate MEA.
In un mercato dell’idrogeno che si avvicina rapidamente a una fase di maturità industriale, la tecnologia smette di essere una variabile neutra e diventa una scelta strategica. La traiettoria di crescita è ormai chiara: l’elettrolisi sarà il principale vettore per produrre idrogeno verde nei prossimi decenni.
Fino alla fine del 2023 era installato circa 1 GW di capacità da elettrolizzatori per idrogeno verde; entro il 2030 il target globale dichiarato è di 150-300 GW, una crescita che equivale a moltiplicare per 150-200 volte l’attuale capacità.
Ma mentre i volumi aumentano e le politiche energetiche accelerano, è evidente che non tutte le tecnologie rispondono allo stesso modo alle sfide che ci attendono.
Il confronto tra elettrolisi alcalina e PEM è tornato al centro del dibattito non solo per ragioni di efficienza o costo, ma per la capacità di ciascun approccio di integrarsi con i nuovi modelli energetici.
L’elettrolisi alcalina ha rappresentato per anni la scelta dominante, forte di una maggiore maturità industriale e di costi iniziali inferiori. Ma il contesto è cambiato. La crescente penetrazione delle rinnovabili e la necessità di flessibilità nei sistemi energetici impongono una revisione delle priorità.
In questo scenario, la tecnologia PEM ha saputo emergere per la sua versatilità. È più rapida nell’avvio e nell’adattamento alle variazioni di carico – può passare dallo stato di stand-by alla produzione attiva in pochi secondi – mentre i sistemi alcalini impiegano minuti o ore per reagire ai cambiamenti nella disponibilità energetica.
Occupa meno spazio, produce idrogeno di maggiore purezza e consente un controllo più preciso dei flussi produttivi. Per esempio, la PEM può raggiungere una purezza del gas superiore al 99,999%, aspetto fondamentale per applicazioni in ambito fuel cell o nella chimica fine.
Questa superiorità tecnica, tuttavia, si accompagna a una sfida ancora aperta: la disponibilità e il costo dei materiali.
Le celle PEM richiedono metalli nobili come platino e iridio, risorse scarse e costose. Ma anche su questo fronte la tecnologia sta evolvendo: negli ultimi due anni la quantità di PGM (Platinum Group Metals) utilizzati è già scesa da 3-4 mg/cm² a circa 1 mg/cm², e sono in fase avanzata di studio le soluzioni Gen2 che puntano a ridurre ulteriormente il carico a 0,1-0,2 mg/cm².
Questo non è solo un miglioramento tecnico: è un passaggio cruciale per rendere la PEM ancora più sostenibile, anche dal punto di vista economico.
Va poi considerato un altro elemento, spesso trascurato ma determinante: la geografia tecnologica.
La Cina oggi domina il mercato dell’elettrolisi alcalina, grazie a una filiera industriale consolidata e a costi molto competitivi.
L’Europa, invece, ha scelto di investire sulla PEM, valorizzandone l’integrazione con le fonti rinnovabili e la coerenza con gli obiettivi ambientali e industriali continentali. Non si tratta solo di una divergenza tecnologica, ma di una strategia energetica, industriale e geopolitica.
Se in passato la PEM veniva considerata una soluzione di nicchia, oggi si rivela una risposta concreta per tutti quei progetti che mirano a integrare produzione e consumo in logiche distribuite e modulari.
Naturalmente, nessuna tecnologia può essere considerata universale. La stessa elettrolisi alcalina conserva un vantaggio competitivo in applicazioni su larga scala, dove la stabilità operativa è la priorità. Ma pensare che una soluzione sia valida ovunque e sempre è un errore di prospettiva.
Oggi il mercato dell’elettrolisi è ancora dominato dalla tecnologia alcalina, che detiene oltre il 55% della quota globale. Tuttavia, i sistemi PEM stanno registrando una crescita significativa e sono destinati ad aumentare in modo sostanziale entro il 2034.
L’elettrolisi PEM non rappresenta un’alternativa “contro”, ma una possibilità “in più” per rendere l’idrogeno una risorsa davvero funzionale alla transizione energetica.
Il punto non è scegliere tra due modelli come se si trattasse di un confronto ideologico, ma comprendere quale tecnologia sia più adatta al contesto specifico: infrastrutture esistenti, profili di carico, esigenze di purezza, vincoli di spazio, disponibilità di risorse energetiche rinnovabili.
La neutralità tecnologica non significa ignorare le differenze, ma riconoscerle per valorizzarle. E in questo, la PEM ha dimostrato di essere molto più di una promessa: è già una realtà industriale solida, in crescita, pronta a giocare un ruolo centrale nella costruzione di un ecosistema dell’idrogeno competitivo, flessibile e sostenibile.